RITORNA AL TESTO PRECEDENTE Capitolo 12 PROSSIMO

 

KA BE

Stavo con alcuni deportati seduto sulle scale della Stube, quando mi sono sentito chiamare. Mi sono girato ed ho visto GioBatta Tea detto Tite di Zòrz. Era un deportato del mio paese, uno dei primi tra gli italiani fagocitati dalle porte della libertà hitleriana: catturato dai repubblichini nei primi mesi del 1944, quale antifascista pericoloso e ricercato perché affiliato alle nascenti formazioni partigiane. Era passato apparentemente indenne in mezzo all’inferno, per la sua forte fibra abituata a tutte le vicissitudini della vita.  Tite era uno strano personaggio.

Aveva trascorso il maggior tempo della sua esistenza nelle patrie galere e da quando era stato liberato, era sorvegliato speciale e veniva di nuovo accolto nella capiente cella della caserma dei Carabinieri di Tricesimo ogniqualvolta il Duce o un suo delfino, od un papavero qualunque erano di passaggio per il Friuli. Veniva di nuovo liberato quando i suoi “amici” se ne tornavano di nuovo nella capitale. Ci salutammo con le lacrime agli occhi in un lungo abbraccio. Sentivo la parlata del mio paese in un tumulto di ricordi. «Son Sordello della tua terra». I versi di Dante Alighieri mi balzarono in quei momenti nella mia mente quale torrente che tutto travolge. E impossibile descrivere quello che in un attimo è capace di far rivivere il ricordo.

Ci siamo raccontati tutto quello che avevamo passato, nel regno dei nefandi perfezionisti di morte. Seduti all’ombra degli alberi, il tempo ci faceva intravedere un sogno che la nostra fantasia creava in una realtà che stava nascendo. Le potenzialità dello spirito stavano per risorgere dalle ceneri dei nostri corpi in disfacimento con quella volontà di vivere che la liberazione aveva resa possibile. Mi disse che aveva scartabellato gli elenchi dei sopravvissuti e che aveva trovato anche il mio nome, che il giorno prima aveva visto don Albino, e che il giorno dopo saremmo andati alla ricerca di un altro nostro paesano che sperava fosse ancora in vita. Sapeva solo che all’atto della liberazione era vivo.

Verso sera accompagnai Tite nella sua baracca e ci demmo appuntamento per il mattino seguente. La notte sognai il mio paese, ma era lontano, non riuscivo a raggiungerlo, era come nebbia che scivola tra le dita e la visione finì in un incubo tetro, irreale. Il giorno dopo Tite mi aspettava ai margini della grande piazza dell’appello. Mi disse che non era certo, ma che probabilmente il paesano era stato accompagnato al Revier del campo. Lo cercammo tra le baracche, ma senza esito. Nelle stanze non era possibile entrare senza permesso e senza il visto delle autorità sanitarie. Tite sapeva barcamenarsi e tanto fece, tanto chiese e tanto interrogò che ci inviarono nella sala delle docce, dove venivano deposti quelli che dovevano essere ricoverati, previo bagno, disinfezione e visita medica.

Entrammo nella grande sala delle docce.  E quello che si presentò ai nostri occhi era indescrivibile. Scena apocalittica. Centinaia di esseri strani giacevano in pose raccapriccianti, uomini scheletro che respiravano appena, ossa con pelle gialla e cascante, mostravano flemmoni in putrefazione, mani e piedi rosi da cancrena rossastra con ossa scoperte.

Giacevano sull’impiantito pieno di escrementi. i più rantolavano. Piaghe multicolori, chiazze sanguigne, membra gonfie. I dissenterici accovacciati spruzzavano liquami nauseabondi, alcuni stesi e nudi mostravano idrocele grosse come palloni pencolanti su gambe ossute, bocche sdentate, smorfie orribili, arti frementi. Tra questa umanità sofferente, gli infermieri, con guanti di gomma, raccoglievano quelli che davano segni di vita, per il ricovero nelle baracche infermeria. Intanto altri corpi nudi, trasportati dalle diverse Stube del Campo, venivano posti negli spazi vuoti.

I morti venivano raccolti, lavati e deposti sui carri per la sepoltura. Un soldato con idrante di acqua tiepida passava tra i degenti e innaffiava i corpi ed il pavimento. L’acqua melmosa scorreva fino agli scarichi e gorgogliando spariva, con moto circolare.  Io non conoscevo personalmente il nostro compaesano, seguivo Tite tra i morituri, cercavo spazi liberi per non inzaccherarmi nelle deiezioni, mettevo piede dopo piede, leggero, con le mani mi coprivo le nari, cercavo di reprimere i conati di vomito e di non calpestare i corpi scheletro. Babele di lingue, sospiri, urla, imprecazioni di deliranti, rantoli di moribondi, fetore di carne in decomposizione, di marcio, di disinfettante, di lordure, di rosso liquame. Tite si fermò, si avvicinò ed «Eccolo» disse.

Ma avrebbe potuto dire «Ecce homo». L’aveva trovato. Giaceva a terra nel rigagnolo melmoso. Il militare si avvicinò, fece scorrere sul suo corpo l’acqua per la disinfezione, pulì il pavimento. Il nostro compagno di prigionia non ci riconobbe, respirava a fatica, febbricitante, gli occhi quasi spenti, ci guardava indifferente, non rispondeva ai richiami. Si avvicinarono gli addetti, raccolsero il corpo in stato preagonico e se ne andarono. Così conobbi Luciano Candusso, triangolo rosso, partigiano dell’Osoppo, nome di battaglia “Satana”.

Io e Tite ce ne tornavamo mogi e silenziosi tra i corpi ributtanti e le salme inerti e nauseabonde, oppressi da un senso di colpa e di inanità, divisi da pensieri di dolore e d’impotenza infiniti. Mi tornarono alla mente frasi lette ed udite tra i banchi del seminario. «L’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio». La mia mente vacillava nel profondo vuoto del dubbio. Vedevo solo dolore, l’immagine del dolore, la faccia della sofferenza, l’aspetto truce del male, l’abbandono, la pochezza umana, l’essenza della desolazione, l’inutilità della vita e della morte, la disperazione palpitante, viva, presente, l’opera devastatrice della mente insana dell’uomo.

Qui non c’era Dio, qui, non c’era l’uomo. Questo era il regno, il dominio del caos. Un buco nero della storia. Ci salutammo con l’augurio di un presto rivederci ed uscimmo a cercare un po’ d’aria pura al sole. Nella grande piazza ferveva il lavoro per la preparazione della festa del primo maggio. Striscioni, bandiere con stelle e strisce, bandiere rosse con falce e martello venivano approntate in ogni dove. Operai erigevano un palco e le bandiere delle Nazioni dei paesi già schiavi del nazismo venivano issate sulle baracche, alle torri di guardia, sul filo spinato. Stendardi grandi e piccoli fatti con pezze di tela raccolte non si sa come.

Mi sono fermato sotto una piccola bandiera italiana. Mi ricordava tante cose. La famiglia in attesa, la terra che mi aveva visto nascere, dove avevo passato i miei anni giovanili, l’età felice e, pur aduso a lavoro massacrante e disumano, a sevizie e maltrattamenti bestiali, alla sferza brutale, a malattie devastanti, ai carri che  trasportavano centinaia di morti accatastati testa e piedi come tronchi di abete, alla degradazione dell’uomo fino all’annientamento di ogni facoltà umana, allo sfacelo di ogni pietà, alla vista di corpi squarciati e di morti ignominiose ed infamanti, ho sentito salire in me dal profondo dell’essere, un desiderio di pianto. 

La piccola bandiera era cucita malamente: tre pezzi di tela uniti con filo di ferro e di rame. Verde, bianco, rosso, uniti da mani della mia terra. Un emblema di libertà. Senza simboli regi. Senza fasci littori. Spezzarsi di catene.  Era la più bella bandiera del campo.