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| FESTA   E  DOLORI Il  giorno dopo, festa per tutti, la grande piazza dell’appello l’Appelplatz  era gremita, anche i malati piano piano si univano alla folla plaudente,  visi scarni, stracci di abiti zebrati fluttuanti, gli occhi rivolti agli  oratori che a turno in tutte le lingue salutavano la libertà rinata.  Bandiere immense, quelle rosse e quelle a stelle e strisce, e tante  altre garrivano al vento. Il simbolo uncinato che pochi giorni prima  troneggiava sull’alto pennone era diventato pezze per piedi e al suo  posto splendeva una bianca bandiera, simbolo di resa. All’altro  lato dell’entrata era stata eretta una grande croce in legno grezzo e  nella baracca dei preti si recitava una S. Messa di ringraziamento. Sul  piccolo tabernacolo una scritta: «Ego sum». Dalle  cucine intanto, in ogni Stube, arrivava il vitto speciale, contorno  immancabile di ogni gioiosa e felice festa di popolo. E fino a sera fu  esultanza, mancavano al convivio i pidocchi che il D.D.T. americano  aveva soppresso, i carnefici e le SS col teschio su tibie incrociate, i  cui corpi marcivano sotto le torri di guardia, immerse nelle fosse che  circondavano il campo, in pose orride.   Tutti eravamo ridotti dalla fame, dal lavoro, dagli stress, dai  pidocchi ad uno stato di grave deperimento organico e bastava un po’  di cibo in più, un’emozione violenta, perché la malattia latente o  già in atto precipitasse. Avevo visto, due giorni prima, alle docce i  risultati. Le morti erano raddoppiate. Le baracche infermeria traboccavano di malati. Così ai primi giorni di maggio fui colto da un’alta febbre e da violenta dissenteria ed accompagnato, a mia volta, dagli infermieri in Ka-Be (Krankenbau, infermeria). Ripassai nello stanzone delle docce, era stato completamente ripulito e l’odore dei disinfettanti impregnava il locale. Pochi corpi di deceduti giacevano in fondo alla stanza, vicino alle porte, in attesa dei carri. Ora gli infermieri ed i medici americani riuscivano a sbrigare il lavoro. Dopo una prima pulitura con apposito idrante ed una doccia, sono stato inviato alla baracca tre, prima Stube. Affetto da tifo. Mi fu assegnato un castello al secondo piano, una piazza tutta per me. Ricordo poco di quei giorni. Solo che dovevo frequentemente recarmi ai W.C. o ai secchi appositi nei corridoi per bisogni improvvisi ed impellenti. Che venivo aiutato a scendere e salire nel vano letto. Ero in stato soporoso. Le cure erano poche, né medicine, né cibo. Solo piccole sorsate di liquidi. Avevamo la visita frequente dei becchini muniti di lunghi guanti, maschere ed una solida portantina di tela che veniva deposta accanto ai letti di quelli che non superavano il male. Un cartellino al piede con nome e numero di matricola. Una piccola mossa al bacino del corpo nudo, un tonfo sul pavimento ed una piazza era libera. Poco dopo, un’altra persona occupava il posto vacante. Mentre i tre esperti in “raccolta rifiuti” uscivano trascinando il misero ingombro. La  stanza era in penombra, un afrore saliva alle nari con violenza. Ogni  tanto un medico con maschera, stivali e camice bianco, passava,  guardava, tastava i poveri corpi, annotava ed usciva di nuovo. Fui  trasportato, non so quanto tempo dopo, in un’altra Stube e di nuovo  assegnato al posto superiore di un castello. La prima parte del  castello, sulla stessa fila ed allo stesso piano, alla mia destra, era  occupato da un francese ammalato di tifo e mezzo pazzo.   Di fronte vedevo sei piedi gonfi, tumefatti, rossastri, le cui  dita scarnificate lasciavano vedere paonazze escrescenze circondanti  ossa bianco-nerastre. Sotto  il pazzo, giaceva uno scheletro rivestito di una floscia pelle  grigiastra, le mani sempre in movimento che fornivano di cibo una bocca  avida e mezzo sdentata. Mangiava in continuazione, lentamente,  assaporando. A piano terra un altro “mussulmano”, ma fiero, pieno di  tenace volontà, ciarliero. Era ebreo, salmodiava un lenta cantilena  che pareva un canto di ringraziamento e una preghiera. Versi  incomprensibili, di una malinconia struggente. Dava la sensazione di un  inno corale, folla errante alla ricerca di una patria promessa. Portava  al collo una catenella con appeso un piccolo cilindro pieno di terra  della Palestina. A  me accanto, stava un friulano, Odillo Contin di Trivignano, affetto da  malanni molteplici. In quella babele di lingue avevamo la fortuna di  capirci, il conforto di aiutarci ed in comune il ricordo della  “piccola patria lontana”. Sotto russi e polacchi, affetti da tifo e  malattie polmonari. Con i russi eravamo affratellati dalla Strasse, il  marchio d’infamia per i traditori e della sottorazza umana. E questo  ci univa. Ricordo quando mi aiutavano a salire sul castello, era una  fatica logorante che ci lasciava lungamente spossati.  Ci  raggiungeva, ogni tanto, voce lontana, la parlata di Antonino Perna da  Gorizia (Odillo Contin è deceduto pochi mesi dopo il rimpatrio. Non è  riuscito a superare i danni delle sofferenze fisiche e morali.  Antonino Perna mi ha scritto subito dopo il rimpatrio, stava bene, poi  ho saputo che era stato di nuovo ricoverato in ospedale. Neanche lui  ha potuto a lungo godere della libertà riacquistata). Nella stanza si  udiva il sospiro, il pianto, il canto, il grido, il lamento di altri  cento “mussulmani” di ogni razza, lingua, religione. Spesso  passavano gli infermieri ed i medici per pulizia, cure, distribuzione di  medicamenti, visite. Ogni mattina e sera passavano i tre con la loro  branda, per la funerea incombenza. Non riuscivo a mangiare nulla, avevo  la bocca riarsa, priva di saliva, anche il respiro pareva un rantolo. Mi  obbligavano a bere strani intrugli ed a giorni alterni, nella sala di  medicazione, mi veniva praticata una grossa endovenosa rossastra,  lentamente. La diarrea stentava a passare, incoercibile, sentivo le  forze abbandonarmi, mi riuscivano faticosi i viaggi ai WC. E non sempre  riuscivo nell’intento. Allora venivo lavato e mi si cambiava la pezza  che faceva da lenzuola. Eravamo tutti nudi. Verso le quattro pomeridiane, la febbre toccava i limiti massimi, mentre il sole appariva alle finestre della baracca. Allora il pazzo alla mia destra, mi guardava, mi chiamava e mi indicava il sole rosso. «Lo vedi, lo vedi» diceva «è il tesoro di Montecristo. Luce come oro e splende. Lo stanno rubando, i ladri». Gli occhi spiritati fissi nel globo di luce. Aveva in mano un coltello (che non so come si era procurato) e lo roteava come un combattente in battaglia. Cercava  di difendere dai ladri, con precisi fendenti, quello che la sua  immaginazione creava. Stava disteso dietro una specie di barricata fatta  con le rettangolari pagnotte tedesche che lui nella notte raccoglieva  presso i diversi castelli. (Pochi riuscivano a mangiare la razione di  pane che veniva servita. Gli addetti lasciavano un filone di pane ogni  quattro ammalati). Dovevo stare al gioco, lodavo la sua perizia  guerresca ed assecondavo le sue fantasticherie.  Altre  volte, specialmente al mattino, prendeva un grosso pane, lo metteva in  fondo al giaciglio e con il coltello colpiva, colpiva, quel tiratore di  spade nel circo e non falliva mai il bersaglio. Ogni tanto la sua mente  viveva nel reale e allora ricordava la famiglia e le persone care.  Parlavamo di un futuro prossimo pieno di promesse concrete. Alle volte  mentre con Odillo Contin guardavamo la lotta titanica del nostro  vicino, la febbre mi ghermiva con tutta la sua potenza e mi sentivo  svanire nei sogni irrequieti del delirio. M’involavo,  con stivali fatati, attraverso il cielo terso, seguivo i venti leggeri e  vedevo la terra allontanarsi fino alla visione dei fiumi, dei laghi, dei  monti, delle foreste, delle pianure coltivate e delle città.  L’Italia, la mia terra. Il Friuli verde, piccolo mondo dai monti al  mare ed al centro la casa e come un’aquila, libero, aleggiavo Sui  campi arati, le piante, le case a me care. Era un saluto alle persone  amate e ritrovavo intatte le speranze ed i desideri rimasti  incompiuti... Mi ritrovavo alfine, dopo aver nascosto gli stivali fatati, nel mio letto di dolore, grosse gocce di freddo sudore mi imperlavano la fronte. Sentivo il cuore in fibrillazione, stanco, confusa la mente, la visione delle cose nel caos frenetico della creazione. Odillo, angelo consolatore, mi tergeva il sudore e sentivo la sua voce rassicurante, nei miasmi della bolgia che ci opprimeva. Un pomeriggio, mentre spaziavo, libero spirito, giunto sopra la mia casa, ho sentito in me un’angoscia struggente, planando sono entrato in una stanza della mia casa ed ho trovato i miei familiari al capezzale di mia nonna che stava spegnendosi. La vidi liberarsi dal corpo diafano, figura fulgente. Mi si avvicinò e mi prese per mano, dopo aver rivolto un saluto a tutti i presenti, mi portava verso lidi di luce. Era una luce mai vista, di un biancore indescrivibile, ci circondava un roteare di luci caleidoscopiche e suoni mai uditi da mente umana. Correvamo verso un punto che pareva attenderci. Mi  sentivo al di là del tempo, dove non ci sono né principio né fine.  Seguivo mia nonna per un lungo tratto finché mi sentii impedito ed  allora ci salutammo lungamente, mentre la sua figura svaniva  nell’eternità ed io tornavo al mio letto di dolore, doloroso  calvario. Mesi dopo, quando tornai a casa mi raccontarono della morte della nonna e tutto combaciava con il mio sogno. In quel periodo venne a salutarmi il mio parroco don Albino, con me deportato, stava ben discosto dal castello, attento a non sfiorare nulla e faceva molta attenzione al coltello sibilante del mio amico francese che colpiva e colpiva il ladro immaginario che cercava di derubare il mio compagno. Mi salutò a distanza e mi informò che dopo pochi giorni sarebbe partito per l’Italia e mi chiese cosa doveva dire ai miei cari. Gli risposi di salutare i miei familiari e gli amici e che presto ci saremmo rivisti in parrocchia. Questo e altro gli dissi con tanta fatica, perché avevo la gola in fiamme e le parole mi uscivano con difficoltà. La febbre era tanta, il deperimento organico in generale tale che mi trovavo in stato preagonico. Vedevo tutto fluttuare e sommuoversi e aleggiare tra veli. Salutò anche Odillo e mi parve che andandosene ci benedisse con gesti simili a quando pregava sugli agonizzanti dicendo: «Parti da questo mondo, anima beata, ti accompagnino gli angeli, si facciano incontro...» Altri  vennero a salutarmi, ma non trovarono che un uomo in trance, la mia  mente vagava, colloquiava con l’alitare del vento, con i raggi di  sole, al di là delle nubi, con le galassie lontane, ai confini con  l’assurdo. I tumefatti piedi che avevo di fronte divennero quattro,  poi due, anche un russo ed un polacco che erano nelle piazze sottostanti  furono trasportati dai “monatti”, corpi immobili, con il cartellino  all’alluce, nella branda pieghevole.  L’ebreo polacco, nudo verme raggrinzito, pieno di desiderio di vita, affievolì il suo canto preghiera; quando gli passavo vicino, gli dicevo di smetterla e lui di rimando rispondeva «Du taliano kaputt». Una mattina anche lui finì nella branda e la lontana Palestina, tanto agognata, fu solo un desiderio disperso nelle tenebre della morte. Il francese venne prelevato dalle autorità sanitarie del suo paese ed, assieme a tutti gli altri suoi connazionali, aerotrasportato in patria. Era l’unico francese del campo che ricordo con affetto, gli altri che ho conosciuto erano triangoli neri, delinquenti e criminali comuni, o gentaglia piena di grandeur. Era l’unico francese normale e per ironia era pazzo.  Un  giorno eravamo in fila per la zuppa, mentre ci trovavamo al lavoro a  Monaco, una lunga fila, quando un SS di guardia dette uno spintone  all’ultimo della fila, era uno dei loro giochi idioti e brutali, e  tutti quanti finimmo uno su l’altro. L’Häftling che era davanti a  me sentendosi spinto, si voltò e lasciò partire un diretto da pugile  che mi fratturò il naso. Seguì una zuffa tra me e quell’energumeno  furioso e prima che finisse male (i tedeschi approfittavano di simili  circostanze per rovesciare la marmitta della minestra e per sfogare i  loro istinti omicidi sui malcapitati) la fila fu ricomposta e tutto tornò  regolare. Il pugile era un francese che divideva il pacco che gli inviava la croce rossa con il Kapò e si sentiva protetto e quindi intoccabile. Porto ancora il segno del “bastardo” nel mio goffo naso dal setto fratturato. E finì anche bene, perché per futili motivi, le SS, in simili circostanze, erano use immergere la testa dei contendenti nella brodaglia bollente, fino alla morte dei contendenti a discrezione dei Kapò. Passarono altri giorni, altri compagni morirono. Ogni  tanto, qualche fortunato considerato “fuori pericolo” veniva  trasportato nel vicino ospedale in muratura, già delle SS E venne anche  per me il sospirato giorno e, disinfettato, lavato, e rasato, fui  consegnato ad un gigantesco negro che mi prese in braccio come un  fanciullo e mi depose nella sua jeep. Uscimmo dal campo, percorremmo  strade, viottoli, tante curve e venni accolto nell’ospedale delle SS  Il tifo era stato debellato, bisognava iniziare vere ed assidue cure. Ma  il corpo debilitato era uno sfacelo. Avevo dolori lancinanti  all’orecchio destro con emissione di liquido purulento. Dolori  polmonari, tosse, mani, piedi e altre parti del corpo rose dalla  scabbia. Mi furono diagnosticati: otite media, pleurite, deperimento organico. Le cure iniziarono, mi fu operato l’orecchio, fui sottoposto a diverse applicazioni con raggi X nella parte operata. Fui affidato a diversi specialisti. |