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| IL  RIMPATRIO A BOLZANO Si  sparse la voce di un nuovo rimpatrio. Gli incaricati al trasporto,  passarono nelle stanze dell’ospedale e ci avvertirono che i medici,  dopo visita individuale, avrebbero consegnato i nominativi dei  pazienti italiani ritenuti validi al viaggio, alla Direzione Militare  americana. Ognuno avrebbe ricevuto una divisa militare nuova, di quelle  trovate nei depositi delle SS ed un cappotto da deportato, zebrato. Per  quanto si riferiva alle scarpe, finiti gli scarponcini militari e le  calzature, non c’erano che i valenki, stivali russi di feltro e  cuoio. Ultimati  i preparativi, sarebbe stata fissata la data del rimpatrio a mezzo  camion militari atti al trasporto persone, forniti dalle autorità  civili della città di Dachau. Alla fine mi ritrovai con in mano il  documento rilasciato dalla del campo che indicava il numero del camion  ambulanza il quale avrei fatto il viaggio fino all’ospedale di  Bolzano.  Saremmo partiti  per l’Italia il 24 giugno, mi consegnarono il vestiario nuovo ed un  paio di valenki n. 45. La divisa era  quella estiva delle SS giubbino e pantaloni mimetici. Gli  infermieri ci fornirono di pastiglie varie, ci venne servito un leggero  pasto ed un blando sonnifero. Ci ordinarono di dormire che il giorno  dopo avremmo lasciato l’ospedale per il rimpatrio. Era il pomeriggio  del 23 giugno. Ci aiutavamo a vicenda, lo storpio accompagnava il cieco, i più malandati sostenuti dagli infermieri e militari USA. C’era qualcuno più fortunato che stava abbastanza bene e si rendeva utile. Arrivarono i camion. Fummo caricati nel mezzo di trasporto stabilito, come da foglio di accompagnamento al posto numerato e la lunga colonna di oltre 40 mezzi partì. I camion erano coperti e non sentivamo la brezza del mattino né il freddo, né il caldo di poi. La  giornata era bella e soleggiata. Su ogni automezzo vigilava un  infermiere e la velocità era contenuta. Ogni tanto la colonna si  fermava per qualche malore o altro dei trasportati e, passate le  montagne con la neve, arrivammo ai confini dell’Italia. La colonna si  fermò. Quasi tutti scesero, per un saluto alla terra patria, tanti  baciarono il suolo. Dai bar e alberghi si udivano le canzoni, canti, la  parlata delle nostre case e la commozione ed i ricordi ci invasero. La  comitiva riprese il viaggio e arrivammo finalmente nel reparto  ospedaliero del Centro Assistenza Rimpatriati dalla Germania, dipendente  dall’Ospedale Militare di Bolzano. Fummo tutti visitati, assistiti e  ricoverati. Era la sera del 24 giugno 1945. Ci portarono la cena e dormimmo fino all’ora delle visite del mattino. Ero nudo nel letto e non sapevo che fare. Dovevo andare al gabinetto. Mi comportai come a Dachau, mi alzai e chiesi dove fossero i WC. La suora del reparto mi vide, diede un urlo e si precipitò con un lenzuolo a coprire la mia nudità. Non ero ancora tornato nella stanza che la suora mi portava una camicia ed un paio di mutande. Ringraziai  la suora e mi scusai. Dopo pranzo vidi nel cortile alcuni ex prigionieri  che mi pareva di conoscere. Erano male in arnese. Alcuni stentavano a  camminare. I pazienti erano vestiti come a Carnevale, con abiti  militari di tutte le fogge e parlavano in cento dialetti diversi. Nella  stanza eravamo in otto e tutti di città diverse; ex prigionieri di  guerra,   provenienti da ospedali della Germania. Il nosocomio era pieno.  C’erano letti nei corridoi, nelle stanze, umanità sofferente, feriti,  ciechi, deperiti gravi ridotti a pelle ed ossa. Eravamo tutti giovani, ma parevamo gente ricoverata in cronicari per anziani. Eravamo i resti di un esercito sconfitto, umiliato, distrutto nei corpi. |