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RICERCATO

Nella primavera del ’44, una sera piovosa, dopo aver fatto baldoria fino a tardi con gli amici, ritornai a casa un po’ alticcio e me ne andai subito a dormire. Verso l’una di notte qualcosa mi svegliò; mi alzai, andai alla finestra e, attraverso le ante socchiuse, vidi luccicare molti elmetti nel cortile di casa mia.

Forse fu mio padre che da lassù mi suggerì “Scappa immediatamente!”. Corsi velocemente nel cortile di Gianna, salii sulla terrazza e bussai alla camera dove dormiva con suo fratello Carlo, li informai di quanto avevo visto. Gianna spaventata mi chiese:

«Stanno cercando te? Che cosa hai fatto?»

«Non ho fatto niente!» risposi.

In effetti neppure oggi riesco a darmi una spiegazione plausibile per quanto stava accadendo.

I soldati erano una cinquantina, entrarono e perquisirono tutta la casa: cercavano proprio me. Mio nonno, che parlava tedesco, cercò di spiegare che ero solo un ragazzo di sedici anni, che non avevo grilli per la testa e che frequentavo con profitto la scuola militare navale, ma non servì a nulla. Avevano trovato la cintura del pigiama che avevo perso nella fuga e volevano sapere ad ogni costo dove mi fossi nascosto.

Con la garanzia che non mi avrebbero fatto niente e convinti che la ragione avrebbe prevalso, mio nonno e mio zio seguiti dai militari, passarono dal nostro cortile a quello di Gianna. Quando sentii i passi che salivano le scale, con un balzo di alcuni metri, saltai nel cortile della casa dei “Ciane” e mi nascosi dietro un pino.

I tedeschi dal terrazzo illuminarono il cortile con le pile, io ebbi abbastanza sangue freddo da rimanere lì, immobile: non mi videro e se ne andarono. Al mio posto portarono via mio nonno e mio zio, che sarebbero stati liberati solo se mi fossi presentato spontaneamente al Comando tedesco.

Mi rosi il cervello tutta la notte cercando di farmi una ragione di ciò che era successo, ma non riuscii a trovare nessuna risposta plausibile se non ipotizzare qualche vendetta nei miei confronti fatta da sconosciuti per motivi a me ignoti.

L’indomani mattina dovetti subire i rimbrotti di tutti: mi ritenevano responsabile di chissà quali misfatti e volevano sapere cosa avevo combinato.

Poiché ero sicuro di non aver fatto nulla, decisi di fare quello che la coscienza mi imponeva: nonostante ciò mi fosse stato vivamente sconsigliato, mi consegnai ai tedeschi perchè liberassero i miei familiari.

Mi recai a piedi fino in Collosomano, sede del Comando tedesco, spiegai alle sentinelle chi ero e mi rinchiusero in una stanza. Dopo un po’ di tempo entrò il Comandante seguito dall’interprete, un  bujese (di cognome Felice),  che parlava la bellezza di cinque lingue. Questi mi spiegò i sospetti che avevano i tedeschi sul mio conto, avvalorati ai loro occhi dalla fuga precipitosa della sera prima.

Cercai di far capire che la mia fuga non era stata altro che la reazione istintiva alla vista dei soldati nel cortile di casa mia. Il fatto che in seguito, a mente fredda, fossi venuto al Comando di spontanea volontà, dimostrava la mia sincerità. Sottolineai più volte che non riuscivo a capire perché fosse stata decisa la mia cattura, visto che non avevo nulla da nascondere.

Il Comandante, dopo aver confabulato a lungo con l’interprete, mi chiese se avessi degli amici che si opponevano alla presenza tedesca a Buja. Dissi la verità e cioè che non parlavo mai di questo con le persone che frequentavo; spiegai nel dettaglio come e con chi avevo trascorso la giornata precedente.

Alla fine mi diede la sua parola che avrebbe liberato subito i miei familiari, ma mi minacciò dicendo che, se fosse successo qualcosa ai tedeschi che si trovavano a Buja, avremmo avuto molti dispiaceri.

Poco dopo l’interprete e una guardia mi condussero negli scantinati della scuola di Collosomano. Da una stanza fu fatto uscire mio zio, che mi lanciò uno sguardo fulminante e non mi rivolse neppure una parola. Mio nonno, invece, quando venne aperta la sua cella, vedendomi scrollò la testa come per dire: “Perché sei stato cosi stupido?”.

Infatti mi chiese subito: «Ma ora che fanno, rinchiudono te?»

Risposi che per il momento ero libero, e gli spiegai quanto era successo. Tutto spaventato e con un sospiro di sollievo, mi disse:

«Hai in tasca qualche lira per andare a prendere un grappino “la di Zefe” (Bar della borgata di Ursinins Piccolo ) per tirarmi su? »